Carni e salumi

carni (e frattaglie) fresche e loro preparazione

Cotenne di maiale (Frittule, Curacchie)

Frittule
Frittule

I prodotti suini lavorati in Calabria hanno origini risalenti al periodo Magno-Greco.  Le prime documentazioni certe risalgono al 1600 grazie all’opera di Padre Giovanni Fiore da Cropani. L’abitudine di consumare insaccati è storicamente riscontrabile in tutte le classi sociali. Le frittule si consumano fredde o riscaldate, sciolte nel ragù o nelle frittate o nelle minestre.

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Ciccioli (Scarafuagli, Sprinzuli)

Ciccioli
Ciccioli

I tempi di consumo sono piuttosto brevi essendo un prodotto tipicamente invernale. Solitamente gli scarafuagli si spalmano sul pane e sui crostini; rappresentano anche l’ingrediente fondamentale per la preparazione di altri prodotti tradizionali quali: “la pitta ccu scarafuagli” e la “pitta untata”.

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Carne podolica calabrese

Podolica con vitello
Podolica con vitello

Il bovino Podolico si diffuse in Italia ed in Calabria intorno al V secolo a. C.. Era considerato animale a triplice attitudine; l’attitudine lattifera era sfruttata in Calabria per la produzione dei Caciocavalli, Butirri, Rasco e Ricotta, mentre la produzione di carne rappresentava l’unica fonte di approvvigionamento di carne bovina. Nel 1908 i bovini podolici ammontavano  in Calabria a 145.000 capi (di cui il 42% nella Provincia di Catanzaro), mentre il minimo storico è stato raggiunto nel 1980 con circa 8.000 capi. La storia d

ella razza Podolica è strettamente legata a quella della mezzadria e successiva riforma fondiaria che vide anche l’introduzione di razze più produttive che, nel corso degli anni, hanno soppiantato la Podolica. Oggi il patrimonio regionale ammonta a circa 24.000 capi di cui 12.000 iscritti al Libro Genealogico della razza.

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Carne ovina calabrese

Carne ovina calabrese
Carne ovina calabrese

“Le pregiate pecore calabresi, Apule e di Melito …” sono menzionate nel “De re rustica” di Columella. Nel passato i consumi di carne ovina variavano da zona a zona ed erano relativamente elevati. Nella tradizione la carne di agnello rappresentava la carne della domenica ed essendo un prodotto della festa rientrava più nei riti della memoria che nella compilazione di un menù. I consumatori calabresi hanno da sempre  preferito l’agnello leggero; le motivazioni di questa tendenza sono comunque da ricercare nelle radici della pastorizia: la pratica della transumanza non permetteva di allevare l’agnello fino a tre mesi poichè l’erba era destinata alle sole pecore e comunque nelle grandi migrazioni non si potevano trasportare animali piccoli. Riguardo le consistenze, dopo un calo incessante a partire dalla I Guerra mondiale, in coincidenza con la caduta del prezzo della lana e la bonifica delle pianure, l’allevamento ovino (insieme a quello caprino) negli anni ’80 diventa protagonista dell’attività produttiva italiana e calabrese in particolare. Attualmente la consistenza ammonta a circa 380.000 capi e le razze più rappresentate sono la Comisana e la Sarda, ad indirizzo da latte, delle quali si sfrutta anche la produzione della carne. I piatti tradizionali in cui compare l’agnello sono, tra gli altri, il sugo d’agnello, ‘u cosciuni (il cosciotto) d’agnello, le costolette alla catanzarese, la famosa “Tiana”. ‘A Tiana prende il nome dal tegame in cui viene preparata che era in origine di terracotta. La pietanza è composta da pezzi di carne di agnello o di capretto ricoperti da uno strato di patate, piselli e carciofi. Si prepara tradizionalmente sia nel giorno di Natale che il lunedì Santo.

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Carne di maiale salata

E’ un prodotto caratteristico dell’intero territorio calabrese. Anticamente questa carne rappresentava il piatto dei contadini che lavoravano presso le aziende agricole e che non facevano rientro a casa per il pranzo. Quindi nasceva come maniera per la conservazione della carne e la facilità estrema di portare un cibo facilmente deperibile, anche durante giornate con climi avversi come il caldo della mietitura. Inoltre rappresentava un piatto tipico e allo stesso tempo calorico capace di garantire il giusto equilibrio alimentare. C’è da aggiungere che questa carne era considerata un alimento povero per eccellenza ed il consumo era quasi esclusivamente della classe operaia.

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Carne di maiale nero calabrese

Maiale nero calabrese
Maiale nero calabrese

La razza “Nera Calabrese” ha origini antiche e probabilmente si tratta di una razza intermedia tra quella Europea e Indocinese. Il suino nero, perfettamente adattato agli ambienti poveri della Calabria, nel corso degli anni ha subito un forte decremento numerico che, dagli anni ’70 in poi, ha fatto rischiare la sua totale estinzione. In merito a questo l’ARSSA, Agenzia Regionale per lo Sviluppo dei Servizi in Agricoltura, ha intrapreso un’azione di recupero e salvaguardia della razza con buoni risultati. Le caratteristiche tipiche del suino nero sono: la rusticità, la capacità di valorizzare gli alimenti poveri, il forte istinto al pascolamento, l’elevata attitudine materna, il forte vigore sessuale del verro. Tali caratteristiche, oltre a permettere la sopravvivenza di questa razza in ambienti impossibili per altre, determina l’ottenimento di una carne ben “predisposta” alla trasformazione a cui si deve la fragranza e la rinomanza dei salumi tipici regionali. La carne di maiale è stata per secoli una vera protagonista dell’alimentazione dei calabresi. Basterebbe ricordare quanto rilevano  le “Statistiche murattiane” relativamente al “cibo ordinario” della Calabria Citeriore (regione un po’ più estesa dell’odierna Provincia di Cosenza) nei primi anni dell’Ottocento.

“La classe dei contadini si ciba rare volte di carne nelle sole domeniche e di frequente nel tempo di carnevale. L’industria de’ neri – suini neri – è mantenuta dai villici anche i più miseri, e per ragioni di negozio, e pel provvedimento della sugna necessaria al condimento dei loro cibi giornalieri”.

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Carne caprina calabrese

Carne caprina
Carne caprina

L’offerta della carne caprina è fortemente condizionata in Calabria dall’andamento del mercato del latte e dei suoi derivati in quanto gli allevamenti sono attualmente indirizzati quasi esclusivamente  verso tale specializzazione. La produzione di carne viene considerata quindi come un sottoprodotto dell’allevamento caprino ad indirizzo da latte. Fin dall’antichità l’allevamento dei caprini è stato legato a quello degli ovini ed ha rappresentato da sempre una risorsa dei sistemi agro-silvo-pastorali. Riguardo le consistenze, dopo un calo incessante a partire dalla I Guerra mondiale, in coincidenza con la bonifica delle pianure, l’allevamento caprino (insime a quello ovino) negli anni ’80 diventa protagonista dell’attività produttiva italiana e calabrese in particolare. Il consumo della carne di capretto è, nella tradizione calabrese, legato al periodo delle festività pasquali. Il capretto rappresenta un piatto tipico della civiltà contadina. Le frattaglie e le interiora dei capretti lattanti si utilizzano per la preparazione del “suffritto e caprettu” (soffritto di capretto), i capretti interi venivano arrostiti alla brace. Famosa è anche la “Stijjholata”, pietanza in cui i budelli di capretto vengono  avvolti attorno ad un rametto di origano e cotti nel sugo di pomodoro.

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Buccularu

Buccularu
Buccularu

“… nella cucina popolare calabrese il maiale ebbe, assieme alle melanzane, un ruolo di primissimo piano, sia pure sotto il profilo simbolico che sotto quello rituale. Il maiale ha da sempre costituito la “banca contadina”, da qui il detto “cu’ si marita e cuntentu un jornu cu’ ‘mmazza ‘u porcu è cuntentu ‘n ‘annu”; dalla prima lavorazione della carne si facevano le salsicce e le soppressate, venivano quindi preparate le carni per gli altri insaccati: capicolli, pancette, bucculari (guanciale), lardo. Debitamente messi in infuso nel vino, venivano quindi asciugati, cosparsi di pepe nero o rosso, e poi arrotolati e cuciti nelle vesciche precedentemente seccate ed appese al soffitto. Dopo, questi salami, venivano stretti in stecche di canne spaccate e pressati, con una forte legatura di spago rosso”. Tratto da “La festa del maiale” di Giuseppe Polimeni pubblicato su Calabria Sconosciuta – anno XVII – n. 61.

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